Fra Giuseppe Giunti,
da diverso tempo è impegnato negli ambienti carcerari, dove sono reclusi anche
autori di gravi delitti. Come è nata questa sua particolare opera di
misericordia ed evangelizzazione?
Devo la possibilità di operare e recentemente anche “stare”
all’interno di un carcere ai progetti della Cooperativa Coompany&, voluta a
suo tempo da monsignor Fernando Charrier, vescovo di Alessandria, che diede
anche vita all’ufficio della CEI per la pastorale sociale e del lavoro. Questo
soggetto sociale crea e mantiene posti di lavoro nella casa di reclusione
(agricoltura, apicoltura, bar interno, etc.) Wanted, esercizi spirituali francescani per
ladri e briganti di Fabio Scarsato (Edizioni Messaggero Padova, 2015), che
ha una bellissima introduzione a cura di “Ristretti orizzonti”. Quando pensai a
dove e come vivere gli esercizi spirituali trovai naturale chiedere di andare
dentro al carcere e il direttore Domenico Arena fu totalmente collaborativo,
suggerendomi lui stesso di recarmi al piano superiore, nelle camere di
detenzione, e non restare soltanto a piano terra, nei locali della palestra,
degli uffici, della cappellina, dei colloqui.
come anche all’esterno
(ristorazione sociale, accoglienza richiedenti asilo, mensa Caritas, traslochi,
progetti in rete con realtà analoghe, case alpine in Val d’Aosta, etc.) e in
questo quadro, tempo fa, avviammo un progetto denominato “Fratelli briganti”;
lettura di brani delle Fonti Francescane in parallelo a studenti del Liceo
“Balbo” di scienze umane, di Casale Monferrato, che sfociò in una giornata
straordinaria di compresenza: studenti, detenuti, operatori e soci della
cooperativa, religiosi e religiose. L’occasione fu anche il testo
Cosa può dire un
sacerdote a una persona che confessa reati tanto efferati? Qual è la strada che
indica loro percorribile per una riconciliazione con se stessi, con le vittime,
con i familiari?
Questa domanda ha una sola ed esclusiva risposta, si può
soltanto rendere presente, viva ed efficace la risposta di Gesù sulla croce, a
pochi momenti dalla morte, data al criminale che aveva accanto, narrata da Luca
al capitolo 23, 42s. Gesù non discute sui reati, sulle pene, sulla giustizia
romana; la sua risposta stabilisce, promette una relazione con quell’uomo. Tu,
oggi, sarai con me. Il tutto preceduto da una garanzia forte e indiscutibile
con la quale Gesù mette la propria garanzia al tutto: “in verità”. Come dire di
non stare a preoccuparsi, nemmeno a farsi più troppe domande, tanto c’è lui. Il
Signore non discute se la giustizia romana aveva emanato una pena corretta, ma
prende a cuore il destino di quel malfattore che chiede che la sua vita non
scompaia nel nulla (ricordati di me!). Gesù non impicca quella vita al passato,
quell’uomo per lui non è, non consiste, non coincide con i crimini commessi;
per lui è una persona alla quale deve dare speranza certa, lui che può farlo. È
a partire da qui, dalla grandezza dell’amore di Dio non misurabile con i nostri
criteri, che si può faticosamente riconciliarsi con se stessi e con la propria
famiglia. La riconciliazione è una strada lunga e tortuosa e oggi sono ancora
rari i casi in cui vittima e carnefici trovano percorsi che abbiano un crocevia
comune. Si tratta di una sfida sociale non da poco. Ci sono tentativi in atto,
anche a cura dell’associazione Libera.
Di recente ha avuto
esperienze dirette con collaboratori di giustizia. La decisione di “uscire dal
giro” e di denunciare il sistema malavitoso, quanto per sua esperienza è legato
a una conversione? Ovvero, c’è una correlazione tra la scelta di collaborare
con il sistema giudiziario e di aderire a un rinnovamento anche spirituale
della propria vita?
Spesso è la forza della donna che fa aprire gli occhi, altre
volte è la paura, o anche il desiderio forte di dare ai propri figli un futuro
il più possibile normale, mentre la parola pentimento, conversione, è usata
pochissimo, non perché non esistano queste dinamiche di salvezza, ma perché
devono restare personali, nascoste, ed hanno tempi e modalità diversissime tra
persona e persona.
Dai suoi racconti,
peraltro molto discreti, relativi a queste esperienze nelle carceri di massima
sicurezza, sono stata colpita in maniera forte dalla sensazione di grande
disagio avvertita nel momento in cui si è trovato ad assolvere una persona.
Confessione-assoluzione non è un semplice automatismo...
Sono state le parole dell’atto sacramentale “io ti assolvo”
che mi hanno scosso come non mai. Intanto il termine stesso risulta ambiguo ma
anche potente in quel contesto, perché si tratta di uomini condannati, non
assolti, dai nostri Tribunali che ora Dio Padre invece assolve e non condanna,
dal suo punto di vista, nella sua logica. Non posso chiamarlo disagio, ma
totale inadeguatezza a parlare in persona di Gesù a fratelli speciali, molto
speciali. E non mi vergogno nel ricordare l’abbraccio e le lacrime liberatorie
per me e per altri. Mi sono sentito piccolo piccolo...
Papa Francesco ha
sempre dimostrato e invitato alla misericordia verso i carcerati, rimarcando
come spesso i contesti della vita possono condurre su strade sbagliate e come
tutti dovremmo metterci nei panni di chi è stato più debole e magari più
sfortunato di noi. Come è percepita, al di là delle sbarre, la figura di questo
pontefice?
Con molta simpatia,
istintiva, a pelle. Ma si tratta di una lacuna che vorrei colmare, bisogna cioè
approfondire i gesti e le parole di Bergoglio perché non si riduca a un
videogioco, finito il quale tu non sei cambiato; uno spettacolino interessante
per mezzoretta ma che non ti coinvolge, e lo dico perché talvolta percepisco
questo pericolo nell’opinione pubblica. Magari si tratta di una tecnica
inconscia di difesa dalle sue evangeliche proposte e provocazioni. La
formidabile comunicativa del papa vuole essere canale per l’incontro di
salvezza. In effetti un detenuto ha raccontato la sua folgorazione a vedere
papa Francesco lavargli i piedi, baciarli e poi alzare in silenzio lo sguardo
verso i suoi occhi. Quando le cose vanno così significa che la comunicazione è
evangelicamente efficace.
Stiamo vivendo in un
contesto “disordinato”, nel quale sembrano venir meno delle certezze, anche in
termini di giustizia. Questa diffusa sensazione quanto porta ad essere più
trincerati nei nostri spazi, meno propensi alla misericordia e quindi anche al
perdono? Che mondo si percepisce dal carcere e che attese si nutrono?
Devo dire che la nostalgia che provo di tornare al più
presto in contatto con i miei “fratelli ristretti” sta proprio qua. Sono degli
analisti, dei sociologi, degli antropologi senza patentino, ma formidabili. Mi
spiego e riassumo semplificando un po’ alcune dinamiche da loro narrate, in
particolare attorno alla tavola del pranzo, in cella.
Primo: molti fanno riferimento alla donna per la decisione
presa di collaborare. Secondo: non esiste più la gerarchia criminale tra di
loro, semmai rispetto per l’anzianità. Terzo: quasi nessuno ha finito le scuole
e il rammarico è evidente. Quarto: alcuni stanno facendo percorsi religiosi o
sapienziali di cambiamento di mentalità. Quinto: i figli sono la calamita
formidabile per andare avanti. Proviamo adesso a immaginare nella società
esterna al carcere questi elementi in azione, come dei fermenti di cultura e di
stili di vita. Fantascienza. Là ritorna, anche se in modo a volte elementare,
ciò che fuori è frantumato; là le vite si ricostruiscono su qualche base che altrove
è liquida, se non evaporata. Sarebbe bello e utile poter divulgare queste
analisi, chissà!
Francesco d’Assisi dà
una grande lezione in merito al recupero dei “fratelli briganti” (FF 1759),
dimostrando come affetto e rispetto possono riportare sulla retta via anche
briganti incalliti. Una puntuale dimostrazione della sensibilità, della forza e
della perenne modernità del Poverello…
Quel brano storico, in forza del quale nella celebrazione
eucaristica mi rivolgo dicendo “fratelli briganti, il Signore sia con voi...” è
un vero e proprio protocollo per avvicinare il mondo della criminalità. Intanto
dà un progetto ai suoi frati, conquistare le vite di quei fuorilegge. Non punta
sulla sicurezza delle strade, sulle paure degli abitanti di Borgo San Sepolcro.
Poi si concentra sul togliere la causa forte della loro azione criminale:
comprargli da mangiare e da bere. Terzo, gridare forte le due verità
apparentemente opposte e incompatibili: fratelli/briganti. Siete briganti,
certo, e lo diciamo nel pieno del bosco, ad alta voce, nella verità, ma nessuno
può togliervi la qualifica di nostri fratelli. È lo stesso atteggiamento del
padre misericordioso (Lc 15, 28-32) il quale, al figlio maggiore che stizzito
non vuole entrare in casa e rinfaccia gli sbagli “di questo tuo figlio”,
risponde che “questo tuo fratello...etc.”. Poi Francesco, magari ricordando le
parole della mamma, comanda di metter tavola e di servire lietamente, sì perché
si mangia anche con gli occhi e col cuore! Dopo pranzo cominciate a chiedere di
astenersi dalla violenza, è il minimo per andare avanti, ma se chiedete tutto
di colpo non vi ascolteranno. Il protocollo prosegue. Aumentate le pietanze e a
quel punto aprite le possibilità definitive. I briganti, sottolinea il testo,
furono conquistati dall’umiltà e dalla benevolenza. La tovaglia posta per
terra, alla loro misura, come gesto di bene-volere. La finale del brano è la
verifica del progetto: i briganti eseguono “punto per punto” il programma,
restituiscono ciò che hanno ricevuto e aiutano i frati entrando a loro volta
nella logica del dare una mano; altri fanno un cammino esplicitamente
religioso; altri si mettono a vivere mantenendosi col proprio lavoro.
Da San Bonaventura informa n. 60 - gennaio 2018
Nessun commento:
Posta un commento