Qualche
settimana fa papa Francesco ha espresso la volontà di istituire la festa di
Maria Maddalena, prima testimone ma anche prima annunciatrice della
Resurrezione. Che lettura dà alla scelta di valorizzare questa figura
femminile?
Ricordo che poco dopo l’elezione papa Francesco, nella veglia pasquale del 2013,
fece il primo riferimento alle donne e all'annuncio della Resurrezione. Se
leggiamo in modo speculare quel momento con l’istituzione della festa di Maria
Maddalena, si può individuare un filo che attraversa il pensiero e il
pontificato di papa Francesco, cioè la consapevolezza che le donne hanno un
ruolo non tollerato ma realmente strutturale nel
costituirsi della Chiesa che è determinato dalla Pasqua e dalla parola che la annuncia.
Se la Chiesa si fonda sull'annuncio della Resurrezione, è chiaro che le donne lo
portano per prime, quindi non è una presenza a cui bisogna far spazio
inventandosi chissà quali teorie ma è appunto strutturale. Mi sembra che il
papa lo dica con grande semplicità e immediatezza.
Io
sono arrivata a occuparmi di questi temi per il ruolo che occupo adesso, per il
servizio che mi è stato chiesto e sono contenta che sia un buon segnale per tante
donne che vi hanno visto un’apertura. Personalmente non aspiro al sacerdozio,
per la mia formazione e per le mie esperienze, ma questa non intende essere una
critica a chi ha queste attese, che rispetto sinceramente.
Credo a
questo proposito che il mondo francescano abbia una positività di fondo: in
questo ambiente non ho mai sentito una discriminazione di genere. Sia da
studente, sia da professore, sia nella possibilità di un avanzamento
professionale, io non ho mai avuto un trattamento diverso dai frati e la mia
nomina si inserisce in una normale dinamica di vita accademica.
Noi donne non dobbiamo
dimenticare che il cambiamento richiede più livelli. Il primo livello è di
formazione, non tanto nostra ma da parte di chi ha un ruolo dirigenziale, di
coordinamento, e mi riferisco soprattutto ai sacerdoti. Nei seminari lo studio
dovrebbe recuperare non solo un confronto con la teologia femminile e della
vita consacrata, ma anche un'antropologia che sia più aperta alla reciprocità.
Di fatto molti sacerdoti vengono preparati in maniera eccellente ma con una
visione ecclesiale che non tiene conto né di una ecclesiologia di comunione, né
di una ecclesiologia del popolo di Dio, né viene fondata su una antropologia
della Genesi.
Ben prima
di pensare a ruoli da
ricoprire in curia, ci troviamo spesso in difficoltà nella parrocchia,
per un fatto culturale, di supremazia, che rivela la mancanza di formazione nei
seminaristi a una apertura verso le donne, che è poi uno degli aspetti dell'apertura nei confronti
dei laici. Se non c'è questa apertura verso le donne, manca lo sguardo verso
l'altro da se'. Deve essere chiaro che il sacerdozio è una funzione e non una potestas, un potere fine a se stesso: se non si recupera un
livello formativo che incida alla base, le riforme dall'alto non avranno mai
una presa profonda, capace di attuare quel cambiamento di cui parla papa
Francesco e del quale noi sentiamo il bisogno.
E gli
altri livelli?
Un secondo
livello è quello pastorale: le donne in genere, le religiose in particolare, portano
avanti una percentuale enorme
di lavoro pastorale. Se non ci fossero le donne, la catena della trasmissione
della fede sarebbe interrotta: il catechismo è affidato a noi, la formazione
nelle famiglie dipende più dalla donna, così come il lavoro pastorale nelle
frontiere e nelle periferie.
Tutto
questo impegno deve essere valorizzato dal punto di vista istituzionale, la
Chiesa deve trovare una modalità perché questa esperienza pastorale diventi
incisiva laddove essa riflette su se stessa, come nei momenti sinodali e
collegiali.
Va
detto che c'è una peculiarità femminile individuabile nella nostra sensibilità
all'altro, nell’attitudine alla relazione, all'ascolto, all'accoglienza. La
natura ci ha reso più capaci di pensare agli altri, il nostro rapporto con la
vita è diverso, noi la generiamo, la vediamo crescere, la custodiamo e
certamente tutto questo ci segna.
Terzo
livello, infine, è quello di portare la donna dove si assumono le decisioni,
quindi ripensare un po' alcune forme
di governo della Chiesa che non sono necessariamente legate al potere di
giurisdizione. Questa è una riflessione che coinvolge ovviamente sia la
teologia sacramentale sia il diritto canonico. Però, in definitiva, sarebbe molto limitato se la
riforma si circoscrivesse a questo: è possibile una donna a capo di una
congregazione o dicastero ma, se non ci sono tutti i tre livelli, credo che non
si cambi. Anzi, forse sarebbe la scorciatoia che potrebbe fermare la riforma.
Il
mondo femminile religioso è veramente pronto a tutto ciò?
Ho avuto un ruolo di formatrice nel mio istituto e ho visto
le giovani generazioni cambiare con una accelerazione di cui siamo tutti
spettatori. Noto che, di fronte ad alcune teologhe che sono sui settanta anni, io
ho molto meno attivismo perché appartengo a un periodo in cui tante battaglie
erano già state fatte, mentre le nuove generazioni sono ancora più indifferenti.
Faccio un esempio: le sette giovani italiane che attualmente sono in formazione nella mia
Congregazione sono tutte laureate. Questo significa che entrano più tardi in
convento e non è un particolare secondario per la formazione, ma significa
anche che hanno alle spalle una professionalità che le ha portate a un ruolo, a
una posizione anche nei confronti dei colleghi uomini. Quindi è impensabile che
queste generazioni si pongano il problema di un loro riconoscimento: lì dove
non c'è, diventano semplicemente indifferenti, come se la parte maschile che non concede spazio, per così
dire, non meritasse nemmeno di essere presa sul serio. Di questo bisogna
essere consapevoli: se le generazioni precedenti combattevano, le generazioni di
oggi sono un po’ più indifferenti. Eppure
questa indifferenza andrebbe guardata seriamente: la fuga delle donne dalla
Chiesa non aiuterebbe nessuno, sarebbe veramente un dramma sotto tanti punti di
vista. Mi chiedo se nelle nuove generazioni questa mancanza di passione non sia
anche segno di una disaffezione dal mondo ecclesiale. Conosco donne che quando
parlano del Concilio Vaticano II si trasformano, lo hanno sentito come un
evento che ha segnato non solo la Chiesa ma la loro vita nella Chiesa e sarebbe importante che questa
passione si trasmettesse anche alle nuove generazioni.
Quale
contributo può dare il mondo dell'Università per una riflessione di approccio
teologico sul ruolo della donna?
Secondo
me il mondo dell'Università è, in questa fase, davvero fondamentale. Innanzitutto
perché può riflettere e quindi produrre pensiero. Credo ci sia un numero di
teologhe che hanno acquisito e guadagnato grande autorevolezza negli studi
biblici e non solo. Ma penso che in questo senso tutti, non solo le donne ma l’intero
corpo docente di una Università, possa produrre una visione ecclesiologica
sempre più adeguata.
Poi ci
sono altri aspetti molto importanti: vedere che anche una donna può avere la
stessa competenza, serietà e professionalità di un uomo, è una esperienza che
segna lo studente. Come del resto porre una donna a insegnare ai futuri
sacerdoti, credo che sia significativo nell'esperienza di un uomo che si dovrà
confrontare con il mondo. E poi Università significa ricerca, incontri,
conferenze, contatti con altre istituzioni. L'Università deve formare persone
aperte e, se mancasse il mondo delle donne e il contributo dei laici, non so se
faremmo un vero servizio culturale in queste Università pontificie, in quanto
dobbiamo formare studenti aperti e non si può farlo solo teoricamente ma ciò
deve essere sperimentato nelle diversità.
È in
atto un ampio dibattito sul gender: il cristianesimo, sempre attraverso la
formazione, come può cercare di ricondurre all'essenza dei generi biologici -
maschile e femminile - nella loro reciprocità? Come si può cercare di riportare
un ordine in una situazione che sembra sfuggita di mano, sul piano della
consapevolezza identitaria?
È molto difficile affrontare questi problemi anche perchè sono supportati,
in maniera non limpida, da questioni economiche che stanno dietro le ideologie.
Si fa di ogni ideologia un'arma quando ci sono interessi economici che vanno al
di là dei diritti. Semplicemente, non c'è un genere da decidere ma un dono da
accogliere, un progetto di amore. Non so come si possa uscire dall’attuale
situazione, di certo dovremmo agire su due livelli. Il primo è quello di non
temere il dialogo: a volte il
nostro atteggiamento è esclusivamente difensivo, anche per motivi giusti
perché di fronte ad alcune situazioni non può esserci il compromesso; tuttavia viene interpretato
come chiusura e quindi ignorato. La Chiesa perde così la possibilità di dire la
propria parola in quanto viene precluso l’ascolto. Dunque il primo passo è di
non chiuderci e non temere il confronto che, comunque, richiede sempre preparazione.
Seconda cosa è di non rinunciare all’unica arma che abbiamo: recuperare il
valore formativo nelle scuole ma anche nella vita comunitaria, valorizzando le
caratteristiche dell’essere uomo e donna, riportandole alla visione biblica
della creazione. Stiamo assistendo a un martellamento dinanzi al quale la Chiesa
deve trovare il modo di far passare il proprio messaggio e di essere ascoltata,
ferma restando la libertà dell’uomo.
Veniamo
al mondo francescano, in particolare al rapporto di Francesco con le donne: Chiara
e la figura di Jacopa. Cosa può suggerire oggi?
Chiara
ebbe un ruolo insostituibile, anche nella chiarificazione vocazionale di
Francesco che, quando non sa cosa fare della propria vita, oltre che a fra
Leone, è a lei che si rivolge. Questo dice l'importanza di un rapporto in cui
la donna assume l'autorevolezza di un discernimento che in genere si attribuisce alla figura
maschile. L'amicizia con Jacopa, poi, riesce a superare tanti pregiudizi. Il
mondo francescano, da Francesco in poi, non si riesce a pensare senza il
rapporto con le donne e non solo per i monasteri di Clarisse: pensiamo ad
esempio anche a Elisabetta di Ungheria. Le donne hanno saputo interpretare,
forse in maniera più immediata degli uomini, la vita di Francesco. Inoltre, non si deve dimenticare che le Congregazioni femminili
francescane, nate a fine Ottocento, sono il modo con cui il francescanesimo si
è confrontato con la modernità. Nel periodo delle soppressioni, quando gli
Ordini maschili vengono aboliti, nel grosso disorientamento che si genera, sono
gli istituti femminili a entrare in dialogo con la modernità. Queste donne,
proponendosi come maestre, infermiere, si inseriscono nel tessuto sociale. Senza
l'elemento femminile il francescanesimo non sarebbe comprensibile e questo proprio
grazie al modo in cui Francesco ha considerato Chiara e le donne in genere.
Quanto
alla figura di Jacopa, personalmente la ritengo rivoluzionaria anche per la
presenza in momenti particolarmente significativi della vita di Francesco, come
quello della morte. È evidente che Francesco è una figura molto libera che riconduce
il tema uomo-donna a questa necessaria libertà che è propria del cristianesimo,
compiendo un cammino splendido verso questa libertà e riuscendo a rapportarsi
al di là dei pregiudizi fortissimi dell'epoca. Bisogna però dire che egli ha
anche trovato delle donne molto libere: non è solo lui un grande uomo, sia
Chiara sia Jacopa sono donne di una statura gigantesca, donne la cui femminilità è pienamente realizzata.
Qual è
la sua figura di riferimento nella quale riconosce quelle caratteristiche della
femminilità che possono essere funzionali a una crescita negli ambiti della famiglia,
della società, della Chiesa?
Sono entrata in convento a 19 anni e ho conosciuto
consorelle che mi hanno affascinata per la loro piena
umanità. Ricordo la
superiora generale dell’epoca, madre Giulia e poi madre Olimpia, due donne
culturalmente molto diverse. Erano gli anni Ottanta: madre Giulia non era
laureata, madre Olimpia sì. Eppure erano ambedue donne di grande apertura,
hanno avuto la capacità di mediare con la mutazione dei tempi, donne concrete,
di una sensibilità eccezionale ma anche di una grande chiarezza di principi. Quelle
sono donne che mi ispirano e che ho conosciuto nel quotidiano. Le figure che
culturalmente hanno segnato il mio cammino sono tante, sicuramente Edith Stein
che, tra l’altro, si è interrogata molto sulla donna e si è fortemente impegnata
nel mondo universitario. Mi
ripeto sempre una sua frase, scritta nel 1932 a Hedwig Conrad-Martins: “Non è
facile stare in un posto di responsabilità, per il quale mi mancano molte
conoscenze necessarie, e avere poche probabilità di poterle recuperare tutte.
Ma fino a quando avrò indizi che il Signore mi vuole in questo posto, cercherò
di rimanere”. Figura di una grandezza della quale forse era lei l’unica
a non rendersi conto.
Per
concludere, torniamo al mondo universitario: stiamo assistendo al cammino per
la costituzione dell’Università francescana, una nuova realtà accademica che
rappresenterà un importante punto di unione tra le famiglie francescane…
Una opportunità unica ed è proprio in questa fase operativa
che ci rendiamo conto – forse più che all’inizio – dei nodi da sciogliere,
delle fatiche da affrontare ma anche delle numerose potenzialità. Molti aspetti
devono ancora essere definiti ma percepisco una grande e positiva attesa da
parte del mondo francescano. Inoltre, con la nostra unità, potremo fare un importante
servizio alla Chiesa.
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