domenica 5 febbraio 2023

LA CHIESA DEI PASTORI E DEI CAPI TRIBÙ

Non è una novità - bensì una benedizione - che papa Francesco di sovente ricordi le caratteristiche principali che dovrebbe avere ogni “uomo di Dio”. È tornato a farlo a Giuba, capitale del Sud Sudan, tappa del pellegrinaggio ecumenico di pace (31 gennaio-5 febbraio), incontrando i religiosi che operano in una terra afflitta dalla povertà, dalla violenza tra gruppi etnici, dalle guerre. 

Una terra difficile nella cui storia spiccano figure di missionari coraggiosi che hanno speso e spendono la loro vita per lenire le profonde ferite di questo giovane Paese. 

Pensiamo al comboniano e giovane vescovo di Rumbek, Christian Carlassare (nella foto), due anni fa vittima di un agguato e oggi pellegrino di speranza e di pace con la sua gente, con cui ha condiviso nove giorni di cammino per arrivare nella capitale Giuba e incontrare il Papa. O, guardando indietro nel tempo, il fondatore dell’istituto dei missionari san Daniele Comboni (1831-1881) che spese la sua vita di sacerdote e vescovo in Africa. Papa Francesco, nel suo discorso nella capitale sud sudanese ha citato proprio Comboni e la sua convinzione secondo la quale il missionario deve essere disposto a tutto per Cristo e per il Vangelo.

Un principio inderogabile per le migliaia di missionari, religiosi e laici, che decidono di mettersi al servizio dei bisognosi, dando così il proprio contributo per risollevare l’asticella dell’uguaglianza di opportunità, pesantemente a detrimento di alcune zone del mondo come, appunto, molti Paesi africani. 

Noi privilegiati, perché nati nei Paesi “giusti”, siamo sempre chiamati – per un dovere morale – a riflettere su cosa significhi lottare per vivere e per essere persone libere, come avviene quotidianamente in alcune zone del mondo. Lo dovremmo fare per capire meglio il contesto generale ma pure noi stessi, quello che abbiamo e quello che ci manca per essere buoni cristiani.

Un compito che spetta, non certo in misura minore, anche a chi ha scelto di essere un ministro di Dio ed è chiamato a comprendere come, ha sottolineato papa Francesco, “non siamo capi tribù ma pastori compassionevoli e misericordiosi, non padroni del popolo ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non siamo un’organizzazione mondana che amministra beni terreni ma siamo la comunità dei figli di Dio”. Un invito a spogliarsi della presunzione umana, a coltivare l’incontro con Dio nella preghiera perché “bruci le sterpaglie del nostro orgoglio e delle nostre ambizioni smodate”.

Parallelamente all’immaginazione di quanto accade in queste terre ai margini del mondo privilegiato, corre il pensiero a quello che viviamo nelle nostre realtà, dove stare dalla parte di Cristo comporta decisamente meno pericoli e difficoltà. 

Viene allora da chiedersi cosa manca alla Chiesa “nostrana” perché possa essere e quindi mostrarsi più pienamente autentica, perché i suoi pastori riescano a camminare veramente in mezzo alle sofferenze e a “sporcarsi le mani” per la gente. 

Non sono sguardi eccessivamente critici o esigenti a scorgere queste carenze nella nostra struttura ecclesiastica, bensì una oggettiva e visibile difficoltà che affonda le proprie radici su differenti terreni, compreso quello del frequente allontanamento dal carisma abbracciato. Non a caso papa Francesco ha sottolineato che “mai dobbiamo esercitare il ministero inseguendo il prestigio religioso e sociale, quel brutto fare carriera”. 

È una Chiesa a due velocità quella che cammina nel mondo: da una parte religiosi missionari chinati a medicare le ferite, a proteggere e a restituire dignità agli oppressi; dall’altra religiosi che troppo spesso con il loro sguardo lambiscono appena le “povertà” di quanti hanno attorno, per quell’attenzione prioritariamente gettata non sulle persone ma sulle cose, non sulle periferie ma sulle stanze luccicanti del potere. Campioni di distrazione e talvolta persino dei giuda 2.0 che, rinnegando la verità, finiscono per tradire innanzitutto se stessi e la credibilità di una Chiesa che deve essere spazio di accoglienza, di ascolto, di carità, come Cristo vuole. Spazio, non necessariamente tempio, come ci insegna ogni giorno la sofferenza ma anche la genuina gioia conquistata, vissuta e testimoniata nelle chiese di periferia. 

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