Venti anni sono un tempo relativamente lungo che permette
di vedere ancora con grande nitidezza gli eventi, sentirne i rumori e gli odori,
conservare i ricordi di volti, di voci, di sguardi. Ci sono comunque avvenimenti
destinati a sopravvivere a qualsiasi tempo e sono quelli che ti hanno coinvolto
nel profondo, che ti hanno occupato la mente giorno e notte, che ti hanno fatto
piangere e sorridere, che ti hanno lasciato un segno profondo, destinato a
sopravvivere a qualsiasi anniversario, anche il più longevo.
L'alluvione della Versilia e Garfagnana non è stata solo
una calamità che ha colpito la mia terra o un impegnativo banco di prova
professionale, è stata ed è un bagaglio che accompagna tutt'oggi il mio
cammino, con il suo carico di conoscenze, di rapporti interpersonali, di sfide
emozionali, di dolore ma anche di speranze, di una concezione del mestiere come
servizio.
Quel 19 giugno 1996 mi ritrovai catapultata in un fatto dai
contorni inizialmente imprevedibili: la portata della bomba d'acqua - termine
oggi entrato nel lessico comune - abbattutasi sull'alta Versilia non era
percepibile dalla piana e dalla costa nei suoi drammatici effetti. Ma c'era un
che di strano nell'aria, la sensazione di qualcosa d'incomprensibile. Le prime conferme
sulla gravità dell'evento le ebbi cercando di inoltrarmi nel cuore della
Versilia: il tratto di strada fagocitato dal fiume a Corvaia, il centro di
Seravezza allagato e il fiume Vezza che correva impetuoso, lambendo le
spallette, scuro e carico di tanto materiale che sbatteva forte contro i ponti.
Ma come era possibile che nel fiume fosse finita tutta quella roba? Evidentemente
era il fiume che se l'era portata via, andando a violare la quotidianità di tante
case e giardini, trascinando quanto trovava sul suo
percorso, in una folle corsa verso il mare.
Furono questi i primi ma chiari segnali che a monte la
situazione doveva essere veramente drammatica anche se non prevedibile in tutti
i suoi risvolti. Le strade per la montagna erano impercorribili, divorate dai
corsi d'acqua o cancellate da frane, le comunicazioni telefoniche interrotte tanto
che non era possibile una verifica diretta e certa di quanto stava accadendo.
Le prime voci allarmanti trovarono ben presto conferma nei
racconti dei soccorritori che avviarono una difficile operazione per dare il
primo sostegno agli abitanti dei centri più colpiti.
Solo il sorvolo con gli elicotteri permise di gettare uno
sguardo d’insieme su quel quadro di diffuso dissesto, ai confini del surreale:
grosse unghiate avevano ferito in profondità i versanti delle Apuane,
scaraventando lungo i canaloni tonnellate di massi e alberi che erano finiti
sui paesi dello stazzemese così come sul versante "gemello" della
Garfagnana.
Una spessa coltre di fango e detriti aveva sfigurato quei
luoghi caratteristici spazzando via, in un crescendo di distruzione, il paese
di Cardoso: case, ponti, strade, ogni colore e suono di quell'inizio d'estate e
con loro le giovani vite di Giulia e Alessio, rapiti dalle acque assieme a Elena,
Valeria, Margherita, Alma, Norma, Mario, Marino, Isolina, Renata, Manuela, Graziana,
Valentino.
Quattordici i morti (di cui un corpo, quello di Valeria,
mai ritrovato) e tanta disperazione per una lotta che sembrava assolutamente
impari, ingaggiata d'improvviso contro una natura che pareva avere cambiato la
propria identità, da madre generosa a perfida matrigna.
Ogni ricordo di quei giorni è strettamente legato al
desiderio di voler conoscere e raccontare tutto quello che stava accadendo, per
informare e amplificare le voci di coloro ai quali non era rimasto altro che il
pianto. Raccontare quotidianamente ogni vicenda era un modo per spalancare le
porte alla consapevolezza di quanto accaduto, tenere alta l'attenzione
dell'opinione pubblica, accompagnare i ritmi dell'immane lavoro svolto dalle
istituzioni, in un encomiabile fronte comune non così frequente nel nostro
Paese.
In quei mesi ho scoperto il senso di una professione che
può farsi servizio per una comunità, raccontando ma anche partecipando, sollevando
i problemi che di volta in volta si presentavano al solo scopo di accelerare
una soluzione.
Ascoltare la gente, leggere il disorientamento nei loro
occhi, raccogliere la disperazione, il nervosismo ma anche i primi tiepidi
sorrisi, sono state lezioni professionali ma, ancor prima, di vita.
La scommessa quotidiana, raggiungendo Pontestazzemese,
Cardoso e i luoghi più colpiti, era di offrire ai lettori de Il Tirreno un quadro obiettivo della
situazione, le storie di questa gente, i provvedimenti amministrativi e le
richieste di cittadini e imprenditori, cercando di rifuggire dalle polemiche e,
piuttosto, traducendo gli eventuali dissensi in un confronto proficuo che
rappresentasse una via accelerata per giungere quanto prima alla messa in
sicurezza e ricostruzione.
Ma la vera difficoltà, alla fine, non stava tanto nel
tenere fede a un metodo di lavoro propositivo, con la consapevolezza che gli
animi erano talmente infiammabili e demoralizzati che ogni parola poteva
acquistare un peso immane, provocando facilmente risentimenti o false
illusioni.
La più grande sfida era, semmai, quella con i sentimenti,
con le emozioni, con quella stessa rabbia e paura condivise giorno dopo giorno
con le comunità colpite. Partecipare, in quei mesi e anni, alla loro
quotidianità faceva vivere angosce e difficoltà che, alla fine, potevano
condizionare il lavoro. Era dunque richiesto uno sforzo di astrazione: calarsi
nelle loro vite per comprendere sino in fondo ogni parola, ogni sguardo, ogni reazione
ma, al contempo, allontanarsi forzatamente dai sentimenti per trattare le
vicende con il dovuto distacco così da garantire una cronaca intinta nelle emozioni
ma non in preda ad esse.
Non è stato facile, soprattutto nei mesi più difficili e
incerti, soppesare testa e cuore, partecipare alle loro vite ma guardarle da
fuori, trovare le parole giuste per riempire vuoti incolmabili e, ancor più,
per raccontarli pubblicamente con il dovuto rispetto.
Non so quanto ci sia riuscita, di sicuro dopo venti anni conservo
ancora tutte quelle immagini, il rumore assordante degli elicotteri, l'odore
del fango, i volontari con le tute arancio, i brandelli delle case ma,
soprattutto, quegli sguardi che vedo ancora dinanzi a me, uno ad uno.
Articolo pubblicato dal quotidiano Il Tirreno del 19.06.2016 (pagg. XII e XIII)
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