di Orlando Todisco*
L’Occidente è la terra della ragione. Non c’è nulla di
cui la ragione non possa o non debba render conto, Cartesio qualificherà Dio
stesso come ‘causa sui’. Niente, neppure Dio può fare eccezione al principium reddendae rationis.
La
modernità è l’età della potenza della ragione, cui tutto è subordinato.
Diventando scientifico-tecnica, la ragione segna di sé la società
contemporanea, lungo un crinale di crescente contrazione dello spazio del
soggetto, funzionario di ruoli, non più padrone di sé, in balìa dell’economia e
questa della tecnologia.
Se il periodo di vacanza segna la rottura della
routine, come sottrarsi all’impero della ragione? La risposta di Scoto è che
non è vero che ‘il rendere ragione’ esprima il momento più alto dell’essere.
Non si trascuri come la ragione, che pretende rendere ragione di tutto, non
rende ragione di sé – a chi dovrebbe renderla? – e dunque è senza perché, cioè
gratuita; apre una sequenza - non ne è un anello – dunque originale, cioè è
all’origine.
E l’atto creativo non è forse fondativo e dunque ‘senza perché’?
“Dove eri tu – replica Dio a Giobbe - quando fondai la terra, quando riempii il
cielo di stelle e il mare di pesci? Dove eri tu?” (Giobbe 38,4).
Scoto compendia
tutto ciò dicendo che Deus vult quia vult
et non est alia ratio quaerenda. La ragione, con i suoi interrogativi, è
impotente circa l’origine degli eventi fondativi. E l’incarnazione
dell’Infinito non è forse il ‘summum bonum’? E’ il mistero del primato assoluto
di Cristo, che genera i perché, ma non è causato da alcun perché comprensibile.
E l’uomo? “Considera, uomo – scrive san Francesco – in quale stato eccellente
ti ha messo il Signore Dio, poiché ti ha creato e formato a immagine del suo
Figlio diletto secondo il corpo, e a sua immagine secondo lo spirito” (Ammonizioni, 5). Non il corpo del Figlio
diletto a immagine del nostro, ma il nostro a sua immagine, come non è Dio a
immagine del nostro spirito ma il nostro spirito a immagine di Dio. Dunque, non
l’Infinito in funzione del finito, come tutte le forme di alienazione - da
Senofane di Colofone fino a Freud passando per Feurbach e Marx - hanno
presupposto, ma il finito in funzione dell’infinito, rispetto al quale pensarlo,
attivando una dialettica liberatoria, senza fine.
Siamo nel regno dell’assoluta gratuità divina, con il
primato del ‘dono’ sul ‘perché’. Siamo nel regno della radicale trascendenza, luce,
sempre nuova, dell’umanità. Siamo nel tempo, reso sovrabbondante di senso
grazie all’incarnazione dell’Infinito. E noi, a immagine di Dio, non siamo
forse proiettati in avanti e in alto? E allora, quale l’area ove in questo tempo
è bello ‘intrattenerci’? La libertà, come liberazione da tutti gli idoli
razionali – dell’economia come del sapere; l’onda dell’infinito che, attraverso
l’incarnazione, investe il tempo; l’incomprensibile, spazio mistico entro cui
perderci; la gratuità, clima altamente teologico, entro cui pensarci e
progettare.
Il luogo che meglio esprime questo nuovo modo d’essere
è Assisi, ove Francesco figura inaugurale insegna a ‘sentire’ le cose in modo
sorgivo, nel loro primo mattino.
È qui, in questo sguardo, fresco e creativo,
la perfetta ‘letizia’. Ne I Fioretti
(cap. XIII) si legge che “Un giorno Francesco, dopo aver raccolto con frate
Masseo l’elemosina, si fermò per mangiare con lui in un luogo dov’era una bella
fonte e allato una bella pietra larga. Disposti sulla pietra i pezzi di pane,
Francesco disse: ‘Oh frate Masseo, noi non siamo degni di così grande tesoro’.
E ripetendo più volte queste parole, intervenne frate Masseo: ‘Padre, come si
può chiamare tesoro dov’è tanta povertà e mancamento di quelle cose che bisognano?
Qui non è tovaglia, né coltello, né taglieri, né scodelle, né casa, né mensa,
né fante, né fancella”. Disse Santo Francesco: ‘E questo è quello che io reputo
grande tesoro, dove non è cosa veruna apparecchiata
da l’industria umana; ma ciò che è apparecchiato dalla Provvidenza divina,
siccome si vede manifestamente nel pane accettato, nella mensa della pietra
così bella, e nella fonte così chiara”.
Le cose sono ‘beni d’uso’, non ancora ‘merce di scambio’.
Più che dall’avere o dal non avere, la letizia francescana dipende dalla percezione
delle cose come beni da fruire, non come merci da scambiare o da consumare.
*Ordine dei Frati Minori Conventuali
Docente di Filosofia alla Pontificia Facoltà teologica "San Bonaventura" Seraphicum
Da "San Bonaventura informa"_n. 18/19 - luglio/agosto 2014
Mensile della Pontificia Facoltà teologica "San Bonaventura" Seraphicum
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