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L'espressione
"Ut unum sint" - "che tutti siano una cosa sola" - non è
solo l'invocazione di Cristo durante l'ultima cena o il titolo della lettera
enciclica di Giovanni Paolo II sull'impegno ecumenico (diffusa il 25 maggio del
1995), ma è anche l'incisivo appello di papa Francesco al mondo, perché si
sappia realizzare quella prossimità dei sentimenti che diventi vera e propria
comunione con l'altro.
L'anniversario
dei cinquant'anni dal primo viaggio internazionale di Paolo VI, si è presto
ammantato di risonanze e simbologie, celebrando quel momento come punto di
partenza per un percorso comune e nuovo, per una maturazione della storia che
sappia scrostarsi da quelle stratificazioni depositate da lunghe incomprensioni,
in un cammino che ha visto fortemente impegnati anche Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI.
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Quindi
l'incontro con il presidente Mahmoud Abbas e con le autorità palestinesi con
l'auspicio che "si evitino da parte di tutti iniziative e atti che
contraddicono alla dichiarata volontà di giungere ad un vero accordo e che non
ci si stanchi di perseguire la pace con determinazione e coerenza. La pace
porterà con sé innumerevoli benefici per i popoli di questa regione e per il
mondo intero. Occorre dunque incamminarsi risolutamente verso di essa, anche
rinunciando ognuno a qualche cosa".
Un
"felice esodo verso la pace" che richiede coraggio, fermezza e il
sostegno della preghiera: con questo scopo papa Francesco ha espresso il
desiderio di un momento comune di raccoglimento con Abū Māzen e il presidente israeliano
Shimon Peres. "Offro la mia casa in Vaticano - ha detto il papa - per
ospitare questo incontro di preghiera. Tutti desideriamo la pace; tante persone
la costruiscono ogni giorno con piccoli gesti; molti soffrono e sopportano
pazientemente la fatica di tanti tentativi per costruirla. E tutti,
specialmente coloro che sono posti al servizio dei propri popoli, abbiamo il
dovere di farci strumenti e costruttori di pace, prima di tutto nella
preghiera".
La preghiera,
dunque, come forma di profondo dialogo con Dio è stato il segno principale di
questo viaggio, assieme all'immediatezza dei gesti, capaci di veicolare
l'immagine e lo spirito che animava il pellegrino Francesco, la sua ricerca di
pace e di dialogo. Il viaggio di papa Bergoglio, come di consuetudine, è stato
caratterizzato da una marcata spontaneità che ha condotto a inattesi fuori
programma, come la decisione di fermarsi dinanzi al muro che divide i territori
palestinese e israeliano, raccolto in preghiera, con la testa appoggiata a
questa barriera innalzata sulla mancanza di dialogo e sulle paure che ne
derivano.
In fin
dei conti la paura è spesso generata dall'assenza di confronto e di coraggio,
altrettanto frequentemente diviene il pretesto per la sopraffazione, per gesti
dinanzi ai quali - ha invocato Francesco durante la visita al museo
dell'olocausto, il Yad Vashem, in quel suo discorso-preghiera - "dacci la
grazia di vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare, di
vergognarci di questa massima idolatria, di aver disprezzato e distrutto la
nostra carne, quella che tu impastasti dal fango, quella che tu vivificasti col
tuo alito di vita".
Un
messaggio esportabile in tante realtà, da leggere nella prospettiva di una
comunione di amore, finalizzata alla costruzione di un equilibrio
internazionale per il cui raggiungimento dobbiamo tenere presente che "la
pace non si può comperare, non si vende. La pace è un dono da ricercare
pazientemente e costruire artigianalmente mediante piccoli e grandi gesti che
coinvolgono la nostra vita quotidiana".
E il
cantiere è aperto, in Terra Santa come in ogni altro luogo, affidato a uomini
di buona volontà disposti a vivere "una comunicazione e uno scambio
fraterni che possono darci ristoro e offrirci nuove forze per affrontare le
sfide comuni che ci si pongono innanzi".
Articolo pubblicato da LPL News 24
Articolo pubblicato da LPL News 24
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