Gabriele, a sinistra, sulla papamobile (foto eli) |
È stata depositata la sentenza
del Tribunale del Vaticano sul processo a Paolo Gabriele, l'ex assistente di
camera del papa, condannato a un anno e mezzo di reclusione per la sottrazione
di documenti di proprietà del pontefice.
Con
la deposizione della sentenza si conoscono nel dettaglio le motivazioni che hanno
condotto il tribunale, composto dal presidente Giuseppe Dalla Torre e dai
giudici Paolo Papanti-Pelletier e Venerando Marano, a condannare Gabriele a tre
anni di reclusione ridotti a uno e mezzo per l’assenza di precedenti penali.
Gabriele
è ancora agli arresti domiciliari e vi rimarrà sino alla scadenza dei termini
entro i quali il Promotore di giustizia del Tribunale vaticano, Giovanni
Giacobbe, potrà decidere se ricorrere in appello. Decorso quel termine, la
sentenza diverrà esecutiva e Gabriele sarà trasferito in una cella del
Vaticano, non esistendo convenzione per la detenzione in carceri italiane.
Rimane comunque plausibile un intervento di Benedetto XVI per la concessione
della grazia.
Il
processo si era aperto nel Tribunale del Vaticano lo scorso 29 settembre e
concluso dopo appena una settimana, il 6 ottobre, con la condanna dell'imputato
per furto aggravato, a seguito della sottrazione di numerosi documenti dalle
stanze papali, poi finiti nel libro di Gianluigi Nuzzi.
Quella
che doveva essere per Gabriele una strada percepita come una sorta di
liberazione - "la mia intenzione era quella di trovare una persona con la
quale poter sfogare situazioni che mi creavano sconcerto" - in realtà ha
messo in subbuglio la famiglia pontificia che, da un giorno all'altro, si è
trovata al proprio interno non un "infiltrato dello Spirito Santo"
come si è percepito lo stesso Gabriele, bensì un vero e proprio infedele,
pronto a diffondere al mondo documenti privati del papa.
Un'operazione
che sarebbe iniziata con il caso Viganò, l'ex segretario generale del
Governatorato inviato come nunzio apostolico negli Stati Uniti, con una
promozione che lo stesso interessato e altri hanno percepito come un
allontanamento dalle leve del potere vaticano.
"La
raccolta dei documenti - ha spiegato Paolo Gabriele - è iniziata più o meno
quando è venuto in evidenza il caso di mons. Viganò e i documenti sono stati
raccolti nel tempo. Non sempre singolarmente ma anche in gruppi". Tra questi
l'imputato non ha mai escluso la presenza di altri documenti precedenti a quel
periodo e, proprio il disordine nel quale è stato rinvenuto il materiale
sottratto, giustificherebbe la presenza di oggetti che avrebbero dovuto
trovarsi negli uffici del Palazzo apostolico o nei magazzini vaticani, come la
pepita forse d'oro, l'assegno da centomila euro intestato al papa e una cinquecentina
dell'Eneide. Circostanze che i giudici hanno ritenuto plausibili "in
ragione della confusione in cui è stato rinvenuto il materiale
sequestrato".
Dettagli
emergono anche sulle modalità di acquisizione dei documenti che sarebbero stati
riprodotti con la fotocopiatrice che si trova "in un angolo della stanza
dalla parte opposta rispetto alla mia postazione" e "in orario
d’ufficio, a volte anche in presenza di altre persone".
Quindi
chi si immaginava un maggiordomo aggirarsi furtivamente tra le stanze vaticane,
complice la solitudine e magari la penombra, sbagliava scenario: la fiducia
riposta nei suoi confronti all'interno della famiglia vaticana era tale che poteva
muoversi liberamente e senza destare sospetti.
Sino
alla lettura del libro "Sua Santità" contenente quel materiale
circolato tra poche mani: "ho rilevato nel libro di Nuzzi dei documenti
che non erano circolati nei dicasteri della Santa Sede e sui quali avevo solo
riferito verbalmente al Santo Padre" si legge nella deposizione di
monsignor Georg Gänswein, segretario del papa. "In particolare, si
trattava di una lettera del giornalista Vespa, di una lettera del direttore di
una banca del nord e della stampa di una e-mail inviatami dal padre Lombardi
relativa al caso Orlandi".
Dalla
sottrazione alla diffusione del materiale il passo è breve e così ecco
l'incontro tra Gabriele, Maria con lo pseudonimo utilizzato da Nuzzi, e lo
stesso giornalista il quale nella trasmissione "Gli intoccabili" che
conduceva su La7 aveva dimostrato grande interesse a parlare degli "scandali"
vaticani, avendo peraltro già attaccata al collo la chiavetta con i documenti
passatigli dal maggiordomo infedele.
"Questo
incontro che è avvenuto a ottobre o forse a novembre 2011 - racconta Gabriele
ricostruendo il primo colloquio con il giornalista -, è durato poco tempo anche
perché, sapendo di rischiare, temevo di poter essere riconosciuto da qualcuno.
Avendogli detto che non volevo avere contatti telefonici anche per timore dei
controlli su di essi, il Nuzzi, mi ha invitato per un successivo incontro a
casa sua". Risale a quel giorno la prima intervista video nella quale
"vennero prese tutte le precauzioni necessarie affinché io non venissi
riconosciuto. Anzi cercò di tranquillizzarmi e usò ulteriori camuffamenti per
darmi una maggiore certezza al riguardo".
Nella
sentenza depositata si trova anche l'aspetto della imputabilità riguardo alla
quale "non configura un disturbo di mente tale da abolire la coscienza e
la libertà dei propri atti" ma la presenza di "marcati elementi di
tipo persecutorio" e "un pensiero solo superficialmente complesso ma
in verità piuttosto semplificato".
Quanto
poi alla presenza di complici, i giudici affermano che "è senz’altro da
escludere, dalle risultanze processuali, un concorso vero e proprio", in
linea con le affermazioni di Gabriele che ha però parlato di persone che lo
avrebbero suggestionato.
A
questo riguardo si precisa come il termine suggestione non abbia una "valenza
oggettiva", ovvero una concreta induzione all’azione criminosa da parte di
qualcuno, quanto "soggettiva" nel senso che Gabriele, sulla base dei
suoi contatti quotidiani e sulle relative informazioni in merito all'ambiente,
avrebbe alimentato la volontà di fare qualcosa a difesa del papa e della Chiesa.
Adesso
il processo prosegue con l'udienza, fissata per il prossimo 5 novembre, che
vedrà in aula Claudio Sciarpelletti il tecnico informatico della Segreteria di
Stato accusato di favoreggiamento, mentre "ulteriori indagini sono in
corso circa la sussistenza di altre eventuali responsabilità nella fuga di
documenti riservati".
Quanto
all'utilizzo di quei documenti - oggetto di furto e utilizzati nella piena
consapevolezza della loro illecita provenienza - il dibattito se si possa
configurare o meno il reato di ricettazione sembra essersi arenato. Ma per
questo aspetto si dovrebbe approdare sulla sponda italiana e sappiamo che qui,
in ogni modo, la gestione della giustizia è tutt'altra storia.
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