venerdì 6 marzo 2020

EMERGENZA CORONAVIRUS (ANCHE) IN ITALIA. INTERVISTA A GUIDO BERTOLASO

Il coronavirus, ribattezzato con il nome scientifico COVID-19, da minaccia lontana e percepita con un certo distacco, è divenuta emergenza concreta con i primi contagi e decessi in Italia, dove sono stati presi provvedimenti molto restrittivi ma necessari per cercare di arginarne la diffusione. Ogni Paese sta facendo i conti con questo rischio, adottando azioni di protezione che vanno dalla sospensione dei voli verso le zone maggiormente colpite al rinvio di grandi eventi, dall’interruzione di attività lavorative, scolastiche e culturali, a controlli in aeroporti e raccomandazioni di ordine sanitario e igienico.

Un nemico non visibile e che, come tale, incute paura. Ma un conto è una razionale preoccupazione, altra cosa il panico collettivo che viene talvolta amplificato da una gestione delle notizie non sempre scrupolosa da parte di alcune testate giornalistiche e, soprattutto, dalla vorticosa circolazione di fake news, in particolare sui social network, tanto da provocare potenziali e seri problemi anche a carattere sociale. Eppure, proprio una buona informazione e la chiarezza rivestono, nei momenti di crisi, un ruolo rilevante per la creazione di un clima di fiducia verso le istituzioni e per la diffusione di notizie ufficiali, verificate e utili a fotografare la reale situazione.
Un passaggio quindi indispensabile per affrontare le emergenze ma anche per creare quella rete di sensibilità e solidarietà che potrebbe rappresentare persino una preziosa lezione di umanità.

Per fare chiarezza su questa emergenza, che sta mettendo a dura prova il nostro Paese, abbiamo intervistato il dottor Guido Bertolaso (nella foto), dal 2001 al 2010 direttore del Dipartimento nazionale di Protezione civile, commissario straordinario in diverse e impegnative emergenze ma anche medico con esperienze nelle “periferie del mondo”, dove ha combattuto “da buon francescano” a fianco delle popolazioni contro gravi epidemie.

Dottor Bertolaso, partiamo dal piano sanitario, essendo peraltro un medico: dinanzi a che tipo di emergenza ci troviamo, cosa si deve fare e cosa non fare, a livello di istituzioni e di cittadini?
Si tratta indubbiamente di una novità assoluta nel campo dello scenario delle emergenze mondiali, di quelle che per le loro caratteristiche e potenzialità possono davvero interessare vasti territori e numerose popolazioni della terra. Sono rare le situazioni del genere, in natura, anche il cataclisma peggiore – come terremoti, alluvioni ed incendi - può mietere migliaia di vittime e provocare danni ingenti ma sempre in un ambito territoriale circoscritto ad una provincia, una regione, una nazione o, alla peggio, in un’area subcontinentale come nel caso del sud est asiatico in occasione del tremendo tsunami del Natale 2005.
Solo eruzioni vulcaniche imponenti possono influire sulla situazione climatica della terra per qualche periodo a causa delle emissioni che vengono diffuse nell’atmosfera. Epidemie e incidenti nucleari invece possono davvero, in modo subdolo e silenzioso, interessare rapidamente tutto il mondo; è ancora vivo il ricordo della tragedia di Chernobyl per capire a quale rischio siamo quotidianamente esposti in quel settore dove la trasparenza e l’informazione ancor oggi latitano a causa di ipotetiche esigenze di sicurezza. Virus e batteri, invece, contano oggi su di un nuovo, formidabile, vettore di trasmissione delle loro micidiali cariche mortali che ha demolito quella invisibile barriera di protezione funzionante per millenni: l’aeroplano!
Con questo sistema di rapido trasferimento in ogni dove della terra, una malattia infettiva-trasmissibile può essere trasportata da un ignaro portatore sano in poche ore da una località - dove è iniziata la fase acuta del fenomeno - in qualunque altro posto dove, se le condizioni climatiche e ambientali sono favorevoli, può diffondersi con una rapidità impressionante. Questo genere di fenomeni è destinato ad assumere in futuro un ruolo ed una rilevanza sempre maggiori: più sarà, inevitabilmente, facilitato lo spostamento di masse di genti nel mondo e più sarà difficile controllare e gestire possibili epidemie. Queste possono assumere ruoli e gravità differenti a seconda dell’agente patogeno e della capacità di pronta risposta della scienza medica.
La SARS è stata un’esperienza utile nel 2003 perché era una prima assoluta a livello mondiale, fortunatamente contenuta e controllata in tempi brevi ma che ha permesso di entrare in contatto con questo genere di situazioni e di immaginare, quindi, le risposte più efficaci i cui aspetti ed esperienze stanno tornando utili, se non fondamentali, in questa occasione. Allora la gestione delle informazioni e la comunicazione cosiddetta istituzionale funzionarono egregiamente e la vicenda fu gestita in un clima di attenzione ma di grande fiducia con le istituzioni che consentirono di condurre una quotidianità nazionale in modo del tutto sereno.
Non si videro, allora, mascherine per strada ed esaurite nelle farmacie, non vi furono episodi di psicosi collettiva o intolleranza verso cittadini asiatici, né si assistette ad una patetica rincorsa alle telecamere da parte di esponenti di governo impegnati a conquistare un po’ di visibilità con affermazioni che a tutto portano tranne che a fare chiarezza e diffondere sicurezza fra la popolazione.

Nel 2003, durante la diffusione della SARS, fu nominato commissario straordinario per la gestione di quell’emergenza. Quali sono, oggi, le similitudini e le differenze rispetto a quel contesto?
La Sars fu la prima minaccia epidemica di questo millennio ma, per fortuna, i social ancora erano nel reparto di neonatologia, quindi le informazioni non furono manipolate e distorte come accade oggi. La gestione della fase critica e complessa fu collegiale e coordinata, in Europa l’Italia assunse un ruolo guida nell’indirizzare le politiche di controllo e contenimento e gli screening che furono organizzati negli aeroporti risultarono efficaci nell’impedire il diffondere della malattia nel nostro Paese e nel dimostrare ai cittadini la serietà dell’approccio.
Nel suo ruolo di direttore del Dipartimento nazionale di Protezione civile, si è trovato a gestire numerose emergenze dove i pericoli e i danni erano ben visibili e individuabili (pensiamo a terremoti, alluvioni). Quali sono i principali strumenti per far fronte a una emergenza che, non essendo tangibile, può sfociare in una maggiore paura collettiva?
Essenziale in questo genere di emergenze invisibili, ma potenzialmente micidiali, è la gestione delle notizie da parte delle istituzioni. L’identificazione di una figura unica che parli in qualità di comunicatore istituzionale e che sia l’unica ad avere rapporti certificati con i media e quindi che sia autorevole, attendibile, chiara e trasparente è assolutamente indispensabile.
Non c’è di peggio che cadere nella psicosi dell’incertezza e delle mille informazioni diverse e contrastanti. Occorre che un gruppo di esperti, non solo medici ma anche managers delle situazioni di crisi, affianchino le autorità nazionali nell’indirizzare e guidare verso le misure più efficaci per il contenimento dei casi e per la organizzazione di strutture sanitarie idonee ad accogliere e gestire casi clinici, complessi e delicati.
Sarebbe anche utile che i rappresentanti del governo e i politici si astenessero nella rincorsa di informazioni inesatte, incomplete, spesso stupide, evitando paragoni con epidemie che hanno scritto la storia dell’umanità. Anche gli scienziati, spesso abituati ai laboratori ma privi di esperienze pratiche sul campo di fenomeni del genere, farebbero bene a riflettere prima di presentarsi davanti agli schermi, ma la vanità, purtroppo, è un virus molto più letale di certi microorganismi!

Il coronavirus è partito dalla Cina, dove si attesta un elevato numero di contagi e di decessi, ma in ogni dove è scattata la “sindrome da untore” che porta a preoccupanti atteggiamenti di intolleranza e di sospetto verso quanti hanno tratti somatici orientali. Dunque l’emergenza culturale appare non meno preoccupante di quella sanitaria?
Gli episodi di intolleranza nel nostro Paese sono ormai all’ordine del giorno, di certo non hanno aiutato le polemiche ed i tanti fatti di cronaca legati agli immigrati più o meno legali che in questi ultimi decenni sono arrivati in mille modi nel nostro Paese.
Un Paese che, pur avendo tutte le potenzialità e competenze per gestire questo fenomeno nel migliore e più efficace dei modi, si è invece spesso affidato ad improvvisazioni, dilettantismo e incompetenze che hanno solo aggravato una problematica già di per sé complessa da gestire. Di nuovo, una gestione delle informazioni molto carente, sia a livello istituzionale che da parte dei mass media che hanno dipinto questo coronavirus come la nuova peste o il colera, hanno scatenato una assurda caccia all’untore gestita in modo debole e parziale provocando, nella vasta comunità asiatica residente in Italia e totalmente estranea alla vicenda virale, un risentimento e amarezza del tutto comprensibili. Per fortuna il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ancora una volta ha saputo sgombrare il campo da dubbi, perplessità e illazioni indicando, come è giusto che sia, la strada maestra da seguire e demolendo i molti pregiudizi artefatti.

Un altro problema, come ha sopra sottolineato, è quello della disinformazione e delle fake news che passano in gran parte attraverso il rapido tam-tam dei social network, tanto che il Ministero della Salute ha stipulato accordi con piattaforme social come Twitter e Facebook allo scopo di contrastare le false informazioni e indirizzare verso i canali ufficiali e istituzionali. Si tratta indubbiamente di un nuovo e delicato capitolo di cui tener sempre più conto nella gestione delle situazioni di crisi. Tra notizie incontrollate e non veritiere, qual è la situazione del nostro Paese?
Conservo ancora vivissimo il disgusto per la reazione mondiale all’emergenza ebola che devastò tre Paesi africani fra i più poveri del mondo! Scapparono tutti i bianchi in preda al terrore proprio nel momento in cui c’era bisogno delle loro competenze, delle loro conoscenze, delle loro capacità economiche e scientifiche.
Una vergognosa fuga tuttavia giustificata almeno dal fatto che quella era una vera epidemia, severa e mortale, che ha mietuto decine di migliaia di vittime che si infettarono anche solo per aver partecipato ai funerali di parenti deceduti per quella causa. Solo i missionari e i volontari cattolici non abbandonarono quei Paesi curando i malati e aiutando le istituzioni locali a superare una situazione drammatica nella quale le istituzioni internazionali dimostrarono tutta la loro miserabile incapacità.
Anche in questo caso si è rischiato di abbandonare il prossimo con la non piccola differenza che la Cina non è l’Africa e può benissimo cavarsela da sola.
Personalmente sono totalmente “francescano” in casi del genere, ed infatti mi recai subito in Sierra Leone durante l’epidemia di ebola per collaborare con i medici cattolici del Cuamm (organizzazione non governativa sanitaria italiana, impegnata per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane, ndr) per organizzare servizi sanitari per quei malati. Purtroppo, per una serie di cause e di fattori ancora da definire e comprendere in modo scientifico, il nostro Paese sta conoscendo una delle più serie e gravi conseguenze di questa epidemia che ha colto impreparate le istituzioni e in particolare il nostro pur valido sistema sanitario nazionale. Sorprendente è la contaminazione che ha colpito il nostro personale sanitario, evidentemente privo delle più elementari misure di protezione individuale. È molto raro, tranne che in prima linea, che i sanitari siano infettati se la patologia è conosciuta e se sono state adottate le misure per controllarla e contenerla. Il fatto che portatori sani o malati non esposti abbiano potuto circolare liberamente nel Paese per giorni o settimane, ci pone oggi in una situazione simile a quella cinese con conseguenze al momento poco prevedibili ma con la consapevolezza che si tratta di un fenomeno transitorio e temporaneo, per fortuna anche poco letale se paragonato ad altre malattie trasmissibili.
Occorre però grande capacità di gestione del problema e di organizzazione di tutti i servizi abbinata a misure di quarantena inevitabili laddove esista la certezza di possibili ulteriori diffusioni del virus.
Sono convinto che la conoscenza, l’esperienza e un valore profondo come può solo essere la solidarietà verso il prossimo in difficoltà, siano le armi migliori per abbattere pregiudizi e mettere sotto controllo i virus sia biologici che sociali.


Da San Bonaventura informa, n. 85 - febbraio 2020

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