“Ah, come vorrei una Chiesa
povera e per i poveri!”. É stato questo il primo riferimento di papa Francesco
alla “povertà”, pronunciato nel corso dell'udienza agli operatori dei media,
appena tre giorni dopo la sua elezione.
Proprio in quell'occasione
papa Bergoglio ha spiegato - per la prima volta - il perché del nome Francesco,
riconoscendo in san Francesco di Assisi “l’uomo della povertà, l’uomo della
pace, l’uomo che ama e custodisce il creato”.
Ma qual è il senso della
povertà francescana e come può essere declinata a livello individuale, sociale
ed economico? Soprattutto, può essere compatibile con la modernità? Quali le
strade percorribili per renderla effettivamente realizzabile?
Ad accompagnarci nella comprensione
del significato della povertà francescana è padre Orlando Todisco dell'Ordine
dei Frati minori conventuali, filosofo e docente emerito della Pontificia
Facoltà teologica “San Bonaventura” di Roma.
Padre Todisco, cosa si deve intendere per povertà francescana?
La povertà è forma di vita, di
una vita dotata di un grande potere, ovvero il vivere senza potere, quello
puramente materiale. Il principio guida è costituito dall'assunto che solo
nutrendo la sete dell'anima è possibile tenere sotto controllo la fame del
corpo. Non si rende però giustizia alla povertà francescana se l'accento cade
prioritariamente sulla rinuncia o se si risolve nella condanna della ricchezza.
Condizioni, queste, in contrasto con la "laetitia" e
l'"hilaritas franciscana".
Qual è la portata più profonda del concetto di povertà?
Il tema della povertà riveste
un ruolo euristico di significativa rilevanza perché obbliga a prendere in
esame quella porzione di umanità - i poveri - con una dignità che la
marginalizzazione sociale non cancella. Come anche a esplorare se la situazione
di miseria, in cui taluni versano, non sia dovuta prioritariamente alla
specifica organizzazione della vita sociale.
Non rischia di essere interpretato da qualcuno come un concetto in
antitesi a quello di modernità e sviluppo?
Francesco non ha inteso
frenare la corsa ma renderla meno affannosa, non eliminare la competizione ma
evitare che degeneri in conflitto. Ha sognato un'umanità dinamica e fraterna
mentre il desiderio dell'autoaffermazione ci rende diffidenti e aggressivi. Il
rifiuto del denaro non è condanna del commercio bensì del potere possessivo e
del suo spirito discriminatorio. Per Francesco il peccato originale
dell'umanità è la volontà di signoria dell'uno sull'altro, scambiata per
libertà.
Si può, a suo avviso, intravedere nella strenua difesa della propria
identità un altro problema che genera frammentazione sociale?
Certo, ognuno vive della ed
entro la propria cultura mentre l'impegno sta nel non identificarsi con alcuna
perché si comprenda che ogni cultura è un'espressione comunitaria del tutto
inadeguata e dunque provvisoria rispetto a ciò che è possibile dire e fare a
livello sia individuale che comunitario.
Il francescano non ha alcuna
identità da imporre o da far valere: il suo compito è di mostrare la ricchezza
che sta nella pluralità delle culture, non la loro miseria. Noi tutti dovremmo
considerarci “advenae et peregrini”, ospiti e forestieri, nel senso di
convivere senza alzare la voce, in pace.
Al di là dei buoni
propositi, cosa significa concretamente?
La risposta sta nel vivere per
il bene comune, intendendo con ciò non prevalentemente ciò che è proprio – bene
privato – né ciò che è di tutti indistintamente – bene pubblico -, bensì il
bene che circola e tiene insieme i molti – il bene comune, appunto – il che
accade solo se il soggetto che ne fruisce è in relazione essenziale all'altro
o, meglio, se ciò che viene messo in atto provoca o alimenta la comunione, o
anche se contribuisce alla crescita qualitativa della comunità. Oggi la povertà
francescana può risultare un vero tesoro da riscoprire, dando corpo al cambio
del principio guida del pensare e del convivere: non più il primato delle cose
ma delle relazioni tra i singoli e tra le nazioni. Venendo al mondo, ognuno di
noi è fatto per l'altro, mentre si trova a vivere per sé. Questa è la
contraddizione più profonda. Nell'attuale società non ci si può che scontrare
con l'altro, dal momento che, invece di entrare in comunione con l'altro,
l'impianto socio-economico spinge ognuno a vivere per sé e a piegare l'altro a
sé.
Partendo da questo assunto,
come modificare gli attuali equilibri sociali?
É necessario andare alle
radici dell'essere e chiedersi dove riporre la propria grandezza:
prevalentemente nel possesso di beni materiali o piuttosto in un orizzonte che
inglobi la dimensione economica trascendendola? Il primato dell'altro,
concretizzato nella scelta dei poveri, è il grimaldello con cui il francescano
sottopone a critica la modernità, ponendo al centro la consapevolezza di come la
dimensione dell'alterità sia costitutiva del nostro io più vero. Il che
comporta, su un piano immediato, la messa in crisi dell'impianto antropologico
su cui l'Occidente ha eretto l'edificio economico e cioè il primato dell'io e
dell'efficienza. La massimizzazione del profitto e la conseguente accumulazione
dei beni rientrano in quest'ottica e trovano in tale rete la loro difesa. Il
meccanismo capitalistico è efficace nel produrre cose ma inabile a generare
relazioni. Sia ben chiaro che non è la ricchezza in sé l'oggetto della critica
ma la ricchezza fine a se stessa e cioè non partecipata sia nell'atto della
produzione, disinteressandosi del grave fenomeno della disoccupazione – quasi
fosse socialmente irrilevante e soggettivamente ininfluente –, sia in rapporto
alla distribuzione, ai fini cioè del suo godimento, condannando parte rilevante
dell'umanità alla fame.
A cosa si riferisce papa
Francesco quando parla di povertà?
Al centro sta la logica del
dono, nel senso che ognuno dovrebbe dare quanto può e quanto sa per accrescere
il bene dell'umanità e allora il sistema risulterebbe animato da una diversa
forza, non più di dominazione e sopraffazione ma oblativa. Il sogno di elevazione
sociale di papa Francesco sta proprio nel trasformare la merce in dono. É preziosa e impegnativa la sua lezione
francescana perché impone una sorta di ripensamento dell'indole dell'essere:
non più diritto da rivendicare ma dono da offrire nello scambio, con il garbo
del gran signore. É la via che fa del “fidelis” un “civis” e cioè il testimone
di uno stile di vita secondo cui non è vero che il profitto è la principale
ragione per la quale valga la pena di vivere. Si tratta, insomma, di far rivivere
il “Cantico delle creature” di san Francesco. (eli)
Articolo pubblicato da "La Perfetta Letizia"
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